Recensioni

Hellboy (2019)

Hellboy mette subito le cose in chiaro: il film di Neil Marshall è qui per esagerare, in tutti i sensi, anche negativi.

Hellboy di Neil Marshall non ha nulla da spartire con i due film di Guillermo Del Toro. È inquadrato in un contesto diverso e arriva dopo la fine dell’opera di Mike Mignola, fattore importante per il trattamento di questa seconda trasposizione.

Il reboot in breve è un film che taglia e ricuce parti essenziali o secondarie di Hellboy, dove a stringere e a usare le forbici è il suo stesso autore, chiamato a supervisionare passo dopo passo la sceneggiatura per far convivere insieme la dualità dell’anima del personaggio, il mondo d’azione e le necessità produttive legate alla trasposizione. Quando Mignola spiega dunque che “si tratta della sola versione originale di Hellboy“, non mente, ma estremizza quello che per lui è l’unico modo di portare sul grande schermo Red, sfruttando il suo Universo al 100%, senza censure o troppe “revisioni”.

A differenza di Del Toro, regista dal forte taglio autoriale e riconoscibile, Marshall non ha infatti quella spinta riesaminatrice in più, intenzionata a dare un’interpretazione personale e dal deciso valore artistico a un progetto simile, riducendosi a dirigere in silenzio e senza controllo tutto il materiale che si vede consegnare da altri. È certamente capace, sicuramente la scelta più giusta per regalare ai fan un reboot tanto spinto sul gore, sul noir e su una decisa violenza, ma manca di visione, di tatto stilistico e – più di tutto – sembra tendenzialmente accontentarsi.

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Fortunatamente Marshall è un regista navigato in un certo tipo di cinema, anche di Serie B (vedi Dog Soldier o Doomsday, ma anche The Descent), è capace quindi di tirare fuori il meglio di sé in situazioni di mancanza.
Sì, l’opera pecca soprattutto (ma in grande) in determinate scelte post-produttive, impossibili da giustificare e che hanno un loro peso specifico sulla riuscita generale, ma quando si tratta di raccontare il mondo e i personaggi creati da Mignola, Hellboy è un cinecomic a suo modo fenomenale. Non solo ha il coraggio di puntare su di uno spettacolo sanguinoso e dai toni marcatamente cupi, ma rispetta e amplifica cinematograficamente le atmosfere e i toni del fumetto, dando giusta trattazione alle creature che lo abitano da sempre, partendo dallo stesso Red fino a Baba Yagao al Gruagach.
Parlando del Gigante Rosso, non possiamo che applaudire e ritenerci soddisfatti dell’interpretazione di David Harbour, che non fa rimpiangere per un secondo il buon Ron Perlman, anzi, dà al personaggio sfumature diverse e sorprendentemente meno mature del suo predecessore, rivelandosi una scelta oculata.

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La terrificante Baba Yaga e il suo splendido look artiginale, però, che rende una delle nemesi più impietose e intelligenti di Hellboy, una villain molto più agghiacciante e terribile rispetto alla controparte cartacea. Proprio come l’adattamento di The Corpse, che vede l’introduzione di Alice Monaghan (Sasha Lane) o del Gruagach, anche la storyline di Baba Yaga ci viene presentata come se fosse un melodioso inciso all’interno della sonata della caccia a Nimue, ma in realtà è tutto collegato con intelligenza e ogni parte convive in armonia con l’altra, senza minare il ritmo del racconto, generalmente serrato e mai con reali fasi di stanca.

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È forse l’ultima parte ad accelerare fin troppo la storia e scadere in fastidiosi e facili cliché, senza regalare al pubblico la sontuosa risoluzione promessa. Si chiude l’intera situazione in un paio di minuti, tra una chiacchierata, qualche testa mozzata, un combattimento interessante ma rovinoso e frenetico nel modo sbagliato e una CGI diabolica. Si poteva trovare una situazione più efficace? Assolutamente sì, anche sfruttando gli effetti prostetici o lavorando di più sullo scontro di cui sopra, ma si è scelta la vita dei VFX, sbagliando.

Poco male, a dire il vero, perché in realtà Neil Marshall sceglie di concludere Hellboy in stile metal e gore, in una delle sequenze d’azione più belle dell’anno (insieme alla Caccia ai Giganti) che stringe infine il campo su una bella e gradita sorpresa, che insieme alle due scene post-credit apre all’Universo Cinematografico di Mignola.

Un film grottesco ma bello per il suo trash, con uno stile anni 90 (sicuramente voluto).

VOTO FINALE: 7

RECENSIONE DI PRAITS

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