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Men In Black: International (2019)

Men in Black di Barry Sonnenfeld è uno di quei quattro o cinque film fondamentali degli Anni Novanta. Un classico senza tempo, una sorta di pulp movie in salsa sci-fi, dove svettavano, in un trittico incredibile, Will Smith, Tommy Lee Jones e una Manhattan diventata porto alieno, crogiolo di razze interstellari e improbabili personaggi da fumetto (del resto, il franchise è tratto proprio da una saga comics). Da quel film, continuando a giocare sul fascino degli uomini in nero, custodi dei segreti dell’universo, altri due film, con il terzo (notevole), uscito nel 2012 che addirittura citava Andy Warhol, in un viaggio nel tempo tra la New York contemporanea e quella degli Anni Sessanta.

In questo Men in Black: International niente più Tommy Lee Jones o Will Smith, che non prova neanche più a rifarsi al fumetto firmato da Lowell Cunningham, mantenendone intatto solo il nome. 

Men in Black: International regala dei dialoghi sempre banali, con delle battute che non strappano alcun tipo di sorriso e che soprattutto si appoggiano a una terza spalla comica che altri non è che un surrogato dei Minions di Cattivissimo Me. Quello che effettivamente colpisce dell’intera produzione è la volontà da parte del regista di andare a ricreare un universo che non era mai stato effettivamente studiato e raccontato: da Londra a Parigi, passando per Marrakech fino a Napoli, con quest’ultima tra le location più indovinate del film, MIB ci mostra un mondo che non ci aspettavamo e che viene nascosto agli occhi dei “babbani” con delle pareti invisibili che danno accesso a una dimensione diversa. D’altro canto tolto questo aspetto non resta davvero niente di valido, perché i protagonisti non riescono a trasmettere il medesimo carisma che era stato di Tommy Lee Jones e Will Smith, una coppia che funzionava in ogni momento, tanto nelle fasi action quanto in quelle psicologicamente approfondite: qui l’Agente M e l’Agente H hanno ben poco da dirsi tra di loro e persino i tentativi di condividere dettagli riguardanti quella che era la loro vita prima di votarsi all’agenzia internazionale vengono solo accennati e mai effettivamente approfonditi. Tra l’altro la necessità di esaltare il girl power, sempre più inserito in tutti i contesti dell’intrattenimento moderno, si accusa moltissimo, esasperando aspetti di una sceneggiatura davvero molto piatta, che non regala alcun tipo di emozione.

insomma, non riesce a fare ciò che dovrebbe: non intrattiene e non funziona, non ha né un capo e una coda. I dialoghi e le battute sono davvero inutilmente prolisse, così come le scene d’azione sembrano soltanto un voler esaltare gli effetti speciali, ma senza alcun senso narrativo. Chris Hemsworth, si ritrova a vestire dei panni banali e fastidiosi, soprattutto quando arriva anche la piccola citazione a Thor; Tessa Thompson, invece, regala poche emozioni, tutte facilmente seminate dalla sceneggiatura e che vengono raccolte qui e lì durante la storia, facendo leva anche su quella spalla comica in stile Minion di cui parlavamo poc’anzi, che può strappare qualche sorriso, ma nulla più.

La necessità di un Men in Black così non si sentiva minimamente e la speranza è che esaurita questa vena poco artistica di Gray ci si possa mettere alle spalle l’Agente M, l’agente H, ma soprattutto l’Agente C e anche Liam Neeson.

Un film da sparaflash dritto negli occhi.

VOTO FINALE: 4

RECENSIONE DI PRAITS

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